IL FASCIO TERRASINESE E I TUMULTI DEL 1893

di Rino Catalfio

Una vicenda della fine del  XIX secolo
Da una ricerca storica pubblicata a puntate tra il 1982 ed il 1983 su «Terrasini oggi».


Sul finire del XIX secolo si sviluppò in Sicilia il movimento dei Fasci dei Lavoratori. Secondo la Relazione Sensales, un direttore generale della P.S. che fu incaricato da Giolitti di valutare l’attività e la consistenza numerica dei Fasci e che fu in Sicilia dalla fine del settembre 1893 alla metà di ottobre dello stesso anno, i primi Fasci furono organizzati verso il 1890 dal De Felice Giuffrida, ma ebbero vita effimera. Il primo Fascio, cui aderirono circa 7.500 persone, fu costituito a Palermo nel giugno del 1892. Fu eletto alla presidenza Garibaldi Bosco e a lui si unirono in una efficace azione di proselitismo Barbato, Bernardino Verro ed in un secondo tempo il De Felice. Fra i numerosi Fasci sorti nella provincia vi fu quello di Terrasini, che ebbe breve vita a causa del precipitare degli avvenimenti culminati nei moti insurrezionali del dicembre 1893 e dei primi giorni del nuovo anno.
Ecco lo stralcio della pagina del servizio publicato nel 1983/’83 su “Terrasini oggi”
LA SOCIETÀ OPERAIADI MUTUO SOCCORSO  «Unione e Lavoro»
«É santo dovere di ogni socio essere laborioso, sobrio, previdente ed economo…».
Questa esortazione, contenuta nell’art. 48 dello Statuto della Società Operaia di Mutuo Soccorso «Unione e Lavoro», fondata a Terrasini il 30 aprile 1893, non dovette risultare convincente al questore di Palermo Balabio che, in data 9 maggio, comunicando la notizia al prefetto di Palermo, lo informava che l’Associazione aveva «…veramente per obiettivo il promuovere delle riunioni elettorali allo scopo di provocare la caduta dell’attuale amministrazione comunale…». Che questa fosse l’intenzione recondita dei 56 iscritti nessuno può giurarlo, tranne il nostro diffidente questore, ma nelle riunioni che la Società tenne dal 30 aprile 1893 al gennaio 1894 al n. 10 di Piazza Duomo, ove fissò la sede sociale, prese corpo, senza alcun dubbio, una prima spontanea organizzazione del proletariato terrasinese e l’inizio di un’attività mutualistico-sociale che non avrà, a causa di avvenimenti che troncheranno bruscamente quest’esperienza, il tempo necessario per consolidarsi. É facilmente ipotizzabile che nelle prime riunioni sia stato eletto il Consiglio direttivo e formulato lo Statuto. La nota informativa del questore chiarisce la composizione del primo Consiglio direttivo. Presidente: Bommarito Dott. Paolo; vice presidente: Bommarito Domenico; segretario: La Fata Antonino. Lo Statuto, composto da 48 articoli, fu stampato a Palermo dalla tipografia “Lo Statuto” e il programma della Società risultò il seguente:
1. Soccorso scambievole fra i soci.
2. Assistenza delle vedove e degli orfani de’ soci defunti.
3. L’educazione e l’istruzione di ogni socio o figlio di socio è il criterio fondamentale di questa Società, non che il mutuo soccorso inteso nel vero senso della parola.
4. L’economia, la previdenza, il risparmio saranno inoltre una guida costante della Società ed il segnacolo lavoro, lavoro e lavoro. La tassa d’ingresso venne stabilita in £. 2 dai 15 ai 30 anni, £. 4 dai 31 ai 40, £. 8 dai 40 ai 50 e la quota annuale in £. 6, divisibili in 12 rate di centesimi 50.
Il sodalizio adottò la bandiera coi colori nazionali e la scritta: « Unione e Lavoro, Società Operaia di M.S. in Terrasini ». Non abbiamo, purtroppo, documenti che ci informino sulla composizione delle varie categorie di lavoratori che aderirono alla Società, anche se possiamo ipotizzare una preponderante partecipazione di contadini, il programma che abbiamo ricordato riecheggia i punti chiave che Garibaldi Bosco aveva articolato per il Fascio palermitano:
1. servizio sanitario gratuito anche per i membri della famiglia;
2. servizio farmaceutico gratuito solo per l’iscritto;
3.gratificazione alla famiglia del socio defunto;
4. un sussidio giornaliero di centesimi 60 in caso di malattia (escluso per le malattie veneree o  
    proveniente dall’abuso di sostanze spiritose o da risse);
5. un sussidio in caso di inabilità al lavoro per mutilazione od altra malattia cronica o età avanzata;
6. educazione ed istruzione degli orfani dei soci;
7. un legato di £. 100 per le orfane povere in caso di matrimonio;
8. obbligo di ogni socio analfabeta di imparare a leggere e a scrivere.
La relazione del questore Balabio ci informa che era in via di formazione la cooperativa di consumo, organismo al quale il Bosco attribuiva una grande importanza, sostenendo che «togliendo a tutti questi comuni e comunelli che non vivono che col ricavo del dazio consumo, l’unico mezzo di sussistenza, apporteranno, di sicuro, una rivoluzione nel sistema delle imposte ». E il peso iniquo del fisco statale e della finanza locale, strumento di cui si serviva la classe dirigente dei comuni per taglieggiare i braccianti ed i mezzadri siciliani, fu la causa dell’esplodere della collera popolare nel gennaio 1894.
L’economia del palermitano, sul finire del secolo, era prevalentemente agricola poiché l’industria meridionale, protetta dalle barriere doganali erette dal Regno delle due Sicilie, non aveva retto, una volta abbattute queste difese doganali in seguito all’unificazione politica, lo scontro con l’industria padana più efficiente ed organizzata. Terrasini, che allora contava circa seimila abitanti, basava la sua economia sulla pesca e sull’agricoltura. Secondo un prospetto del 1894 « … i proprietari sono tutti mediocri e piccoli possidenti non essendovene alcuno che abbia vaste proprietà. Nel numero dei contadini ed operai (che ammontava, secondo stime approssimative, a circa duemila) sono compresi circa mille pescatori e tanto questi quanto gli altri posseggono quasi tutti la piccola casa di abitazione e taluni anche un campicello. La terza parte del Territorio è proprietà del Duca d’Aumale D’Orleans…». E’ verosimile che il prospetto consideri la situazione più rosea di quanto lo consentisse la realtà. Fatto sta che un bracciante agricolo, pagato col massimo della mercede, doveva nel 1893 lavorare almeno 15 giorni, dall’alba al tramonto, per poter acquistare un quintale di grano. E doveva con gli scarsi guadagni soddisfare l’esosa tassa comunale sulle bestie da tiro e da soma, l’imposta prediale, il focatico e l’avidissimo dazio consumo. Possiamo immaginare quale incubo rappresentasse per il contadino terrasinese, ogni sera, al rientro dai campi, la vista dei casotti daziari, siti all’entrata del paese, e delle grifagne figure dei «bavaresi », solerti a tassare le povere derrate che essi portavano dalla campagna al paese. Quando l’ira, a lungo repressa, si scatenerà, essi saranno i primi a subire le violenze dei proletari in lotta.
ESPLODE IL TUMULTO
Il 24 dicembre 1893 fu una giornata memorabile per Marco Randazzo. Un’infuocata assemblea, svoltasi nella Sede del Fascio terrasinese, lo elesse alla presidenza, ponendogli al fianco, in qualità di Segretario, l’amico Lumetta Salvatore, compagno di lavoro e di ideali politici. Erano quasi coetanei, essendo Salvatore più giovane di due anni, ed avevano insieme portato all’interno del Fascio una carica di passione che li aveva ben presto fatti emergere fra gli altri. Se la giornata fu entusiasmante anche la notte del 25 fu densa di avvenimenti. Il 9 dicembre, a Partinico, una immensa folla aveva devastato il Municipio ed i casotti daziari. Il 10 dicembre a Borgetto, Balestrate, Giardinello ed in altri centri si erano svolte imponenti manifestazioni che erano culminate con la strage di Giardinello dove persero la vita nove persone. In tutta la Provincia vi era una forte tensione e scoppiavano improvvisi tumulti. Queste notizie, giunte a Terrasini, avevano suscitato infuocate discussioni fra i membri del Fascio e fra la gente del paese. Nel circolo paesano, ne avevano parlato a lungo, fra una partita e l’altra di carte, il sindaco Rosario Ruffino con i «galantuomini locali», ed il brigadiere Anicelli, comandante la locale Stazione dei Carabinieri, aveva dato disposizioni alla truppa di esercitare una maggiore, ma discreta sorveglianza sui caporioni locali del Fascio. Per comprendere le cause di questi tumulti bisogna risalire alla tragica situazione economica dell’inverno 1893-94. Il ‘92 e il ‘93 erano stati anni di crisi per l’agricoltura siciliana e il 1894 prometteva di segnare un ulteriore peggioramento della situazione. Il raccolto di frumento nel ‘92 e nel ‘93 era diminuito di circa il 44% rispetto al 1891. La crisi economica era pesante ed i padroni la facevano ricadere sui salari. E le tasse si mangiavano una cospicua parte dei guadagni dei lavoratori. Terrasini era dal 1888 un comune chiuso, circondato, cioè, alla periferia dell’abitato da un cordone daziario che aveva, in corrispondenza con le strade d’ingresso al paese, una serie di casotti, cioè di piccoli uffici, ove bisognava pagare un dazio per introdurre certe merci all’interno dell’abitato. E fra dazi governativi e dazi comunali erano ben pochi i generi che sfuggivano alla pressione tassatoria del corpo delle guardie preposto alla riscossione. A prestar manforte alla sorveglianza, espletata su tutta la cinta daziaria, giorno e notte, vi era anche il Corpo delle guardie campestri che, avendo la mansione di prevenire eventuali reati che si verificassero in campagna, allargavano il controllo anche ad eventuali “contrabbandieri”. Bisogna aggiungere che la produzione viticola del 1892 era andata quasi completamente perduta a causa della peronospera. La fame nelle famiglie contadine era ormai feroce. Calcolando che una famiglia poteva, all’epoca, avere un reddito annuo di circa 300 lire, solo per pagare il dazio relativo ai trenta rotoli di farina, occorrenti settimanalmente per sfamarsi, se ne andava circa un quinto dei guadagni annuali del capo famiglia. Queste considerazioni erano state ripetutamente fatte nelle affollate riunioni del Fascio che si erano succedute numerose dal settembre dal ‘93 e i discorsi più infiammati venivano dai più giovani, quelli che la coscrizione obbligatoria aveva reso più attenti e consapevoli della realtà sociale in cui vivevano, anche se qualcuno sosteneva che queste erano «ambiziose e indigeste, corrotte idee». Secondo il Prefetto di Palermo, Collemayer, il vero programma dei Fasci era quello di conseguire il proprio intendimento con la strage ed il saccheggio, uccidendo al primo segnale le persone abbienti e impossessandosi dei  loro averi e queste accuse venivano cupamente confermate dai “cappeddi” terrasinesi, mentre sorseggiavano un bicchierino di marsala Florio nei comodi locali del Circolo Arca, in Piazza Duomo. Ma Marco Randazzo conosceva bene l’inumana esistenza dei “viddani”, braccianti agricoli che gettavan sangue sulle zolle e sui sassi di un’avara campagna, senza un contratto che desse loro delle garanzie, con salari che andavano da £. 0,85 a £. 1,30 per una faticosa giornata di lavoro, dalle prime luci del giorno al tramonto del sole o il duro affannarsi dei piccoli proprietari che non riuscivano a trarre dai loro modesti appezzamenti quanto bastava per nutrire la famiglia. E gli passavano per la mente le immagini dolorose dei compaesani costretti ad emigrare (nel 1893 erano partiti dalla Sicilia 14.626 lavoratori) nelle lontane Americhe per guadagnarsi un pezzo di pane.
E queste condizioni erano aggravate dalle tassazioni: il focatico, il dazio, le tasse sul valore locativo e, persino, la tassa sul bestiame che veniva imposta anche a chi aveva solo il possesso di una ‘capra o di una vacca, quanto bastava appena per sopravvivere. Ricorda il Rossi che «si fa pagare il dazio consumo persino alle mammelle delle capre che i pastori conducono nell’abitato per mungere: si calcola cioè quanto latte possono produrre e si riscuote la tassa prima ancora che sia munto». Così queste «classi abrutite delle campagne» avevano preso coscienza e, scrollatasi di dosso la secolare apatia e il complesso d’inferiorità che avevano ritardato notevolmente lo sviluppo del movimento proletario italiano, avevano cominciato ad organizzarsi ed a promuovere agitazioni per i contratti agrari e contro le tasse.
Ma torniamo al 24 dicembre. Il paese presentava il volto calmo e pacifico di tutti i giorni. Il parroco, Don Vito Cataldi, preparava gli addobbi nella Chiesa Madre per la messa di mezzanotte e le donne, nelle loro case, infamavano i saporiti dolci natalizi. Ma altri non erano tranquilli: il brigadiere Anicelli, ad esempio, cui giungevano preoccupanti notizie dai locali del Fascio e il sindaco Ruffino, al quale i suoi fedeli dipendenti recavano notizie poco rassicuranti. Quei benedetti picciotti, quanto chiasso avevano fatto lo scorso luglio per l’aumento del dazio sulla farina grezza e quelle voci sui biglietti di favore che avrebbe elargito per esentare dal dazio alcuni suoi parenti. Tutte calunnie, maligne insinuazioni del gruppo capitanato dal ricco possidente Giacomo Consiglio che sperava, certo, di prendere il suo posto dopo le prossime elezioni. Ma tutto si sarebbe presto calmato, rifletteva il sindaco Rosario Ruffino, sicuro dei passi che aveva già intrapreso per risolvere la situazione.
Ma durante la notte del 25 fu svegliato nel meglio del sonno: i componenti del Fascio tumultuavano. Vestitosi in fretta, si recò col tenente Giungi e il brigadiere Anicelli alla sede del Fascio e lì fecero di tutto per evitare manifestazioni clamorose, ottenendo dal presidente Randazzo che. se si organizzava una manifestazione, sarebbe stata pulita, cioè calma. Ma al mattino del 25 la situazione precipitò. Albeggiava, quando un numeroso gruppo dì aderenti al Fascio, con alla testa il Randazzo e il Lumetta, uscirono dai locali di Piazza Duomo al grido di: « Abbasso il dazio di consumo «. In meno di un’ora il gruppo si ingrossò e al seguito della rossa bandiera del sodalizio, agitata freneticamente dal giovane contadino Andrea Cracchiolo, e dei ritratti del Re Umberto I e della Regina Margherita, si diressero verso Porta Magaggiari, dove era sito un casotto del dazio. L’immensa folla che si era raccolta, al grido di « Abbasso le tasse, abbasso il Comune chiuso, evviva il Fascio «, si scatenò incendiando e devastando tutto ciò che le venne a portata di mano. Poi si diresse verso via D’Aumale, ove fu intercettata dal tenente Giungi che, fatti suonare gli squilli prescritti, invitò la folla a sciogliersi. Ma senza prestare ascolto, questa si diresse, a passo di carica, verso Porta Agghiannuni (ndr: oggi denominato “Agliandroni!”) ove, in breve, venne distrutto il Casotto del dazio al quale fu, anche, appiccato il fuoco. Lo stesso accadde a Porta Partinico, ove due dimostranti, saliti sul terrazzo dell’ufficio, con dei pali di ferro riuscirono persino a demolire il parapetto. E così una folla, ormai incontrollabile, assalì e devastò tutti ì casotti del dazio ed anche l’ufficio centrale, risparmiando, però, la proprietà privata ed evitando, per quanto sappiamo, violenze alle persone.
Le ombre della sera smorzarono i tumulti e l’ira della folla e le campane della Matrice rintoccarono a lungo, segnando la fine di quel Natale di furore e di paura.
LA REPRESSIONE
La reazione del governo Crispi alle manifestazioni popolari del dicembre 1893 fu pronta e severa. L’incarico di reprimere i moti e di ristabilire l’ordine violato fu assegnato al Generale Morra di Lavriano, comandante del XII Corpo d’Armata, al quale fu affidata la reggenza della Prefettura di Palermo. Col richiamo della classe 1869 il Generale Morra ebbe a disposizione una rilevante forza composta da 54 battaglioni di fanteria, di cui 12 inviati dall’on. Pelloux, da 4 battaglioni inviati dal ministro Mocenni e dalle brigate Ferrara e Siena: in tutto 56.300 uomini.
Il 5 gennaio un decreto del Morra sospendeva il diritto d’associazione, il 12 gennaio veniva emanato un decreto sul disarmo che vietava l’introduzione in Sicilia di qualunque specie di arma da fuoco, stabiliva la consegna di tutte le armi, la revoca delle licenze di porto d’armi e rendeva legali le perquisizioni domiciliari. Aveva così inizio lo scioglimento dei Fasci, la consegna delle armi ed i conseguenti indiscriminati arresti per inosservanza della norma, l’arresto dei presunti responsabili dei tumulti ed i processi per direttissima davanti ai tribunali di guerra, insediati a Palermo.
A Terrasini i tumulti del 25 dicembre, originati dalla protesta contro i dazi ed il comune chiuso, (lo stesso presidente del Fascio Marco Randazzo lo aveva esplicitamente dichiarato al Delegato Quagliozzi, secondo la testimonianza del Sindaco Ruffino), avevano, sia pur in modo traumatico, ma non cruento, determinato la temporanea sospensione della riscossione dei dazi. Terrasini era tornata ad essere un comune aperto, come avveniva prima del 1888, ed i cittadini avevano, di certo, riassaporato il gusto inebriante di una completa libertà fiscale e dovevano averne valutato talmente la bontà ed il valore da scendere nuovamente in piazza il 30 dicembre ed il i gennaio alla voce diffusasi del ripristino del dazio consumo. Ma intanto il cerchio si andava stringendo. Il 26 dicembre era giunto l’Ispettore di P.S. Aristide Troise che aveva avuto l’incarico di coordinare l’azione della truppa esistente a Terrasini. Insieme col Brigadiere Anicelli, col Tenente Giungi e col Delegato Quagliozzi avevano deciso d’intervenire a tempi brevi per stroncare sul nascere la rivolta e ristabilire l’ordine.
L’operazione di polizia ebbe inizio dopo la manifestazione del 1 gennaio: la truppa rastrellò il paese, senza troppe delicatezze, alla ricerca dei rivoltosi, operando 27 arresti, per la maggior parte contadini e pescatori. I presunti organizzatori dei tumulti (i due Randazzo, il Lumetta e Andrea Cracchiolo) verranno imprigionati il 23 gennaio e gli arresti continueranno fino a marzo inoltrato.
IL PROCESSO
Il processo ebbe inizio la mattina del 2 aprile 1894. Una mattina fredda, con un cielo imbronciato di nuvole. I familiari degli imputati, giunti a Palermo fin dalle prime luci del giorno, avevano stazionato a lungo nella piazza antistante la Corte d’Assise, fin quando gli uscieri permisero l’ingresso nella sala del processo. Era un antico ed imponente salone: a destra un ampio gabbione per accogliere i quaranta imputati, sul fondo gli scranni dei giudici della Procura, Sezione del Tribunale Militare di Guerra composto dal Presidente, il Tenente Colonnello Bianchi Cav. Luigi, da due maggiori e da tre capitani. Difensori erano il Capitano Francesco Piccoli ed i Tenenti Trigona e Collotti, mentre il Pubblico Ministero era l’Avvocato Fiscale Sostituto Cesare Mattei.
L’udienza s’aprì alle 11,30. Gli imputati entrarono lentamente fra il silenzio della folla che ebbe un fremito di commozione all’entrata di un vegliardo con i capelli bianchi, l’ottantenne Pietro Bommarito. Poi entrò il collegio giudicante, il cui presidente diede subito incarico al segretario Facchini di leggere i capi d’accusa.
Tutti gli imputati erano accusati di saccheggio e di violenza contro ufficiali delle forze pubbliche (per aver costretto le guardie daziarie a fuggire dalle terrazze). Gli imputati Cusimano Pietro, Pellerito Gioacchino e Rubino Salvatore di «oltraggi con parole ed atti in offesa della forza pubblica», mentre il carrettiere Giordano Calogero, l’unico imputato a piede libero, era incriminato per aver fatto lacerare il manifesto del Gen. Morra che imponeva lo stato d’assedio in Sicilia.
L’impostazione della difesa fu chiara fin dalle prime battute: negare che gl’imputati avessero partecipato ai disordini o, se riconosciuti, sostenere che erano presenti solo per curiosità.
Era l’unica linea di difesa possibile nei confronti di un tribunale determinato a priori alla condanna che negherà alla difesa qualsiasi spazio che le possa permettere di allargare le strette maglie dell’accusa per giungere alle cause vere dei disordini.
É singolare l’elenco dei testimoni a carico: 14 testi in tutto di cui due militari, tre guardie campestri, quattro guardie daziane, il sindaco e due possidenti. E non ci sarà bisogno certo degli ammonimenti del presidente perché da queste testimonianze emerga una «verità» univoca, senza sbavature.
Di un certo interesse sono le testimonianze dell’Ispettore Troise e del Sindaco Ruffino. Sostiene, infatti, il solerte ispettore che «a Terrasini chi vuole lavorare può vivere benissimo, perché vi fiorisce benissimo l’industria della pesca e i lavoratori della terra non se la passano male, perché trovan sempre da occuparsi… Nel paese non esiste propriamente miseria, e in molte case ove si recò, per procedere all’arresto di alcuni dei presenti imputati trovò perfino dei mobili artistici che il teste dichiara non aver simili a casa sua». Per dei poveri contadini, niente male! Il Sindaco Ruffino, invece, dopo aver ricordato con dovizia di particolari gli avvenimenti del 2 dicembre, fa alcune considerazioni «d’indole morale». I tumulti, secondo lui, furono causati «dall’esempio malefico dei disordini dei paesi circonvicini e precisamente da Partinico col quale Terrasini trovasi in continua comunicazione e dalle maligne insinuazioni della minoranza, tendente ad abbattere i presenti gestori dell’amministrazione comunale». Gli altri testimoni a carico concordano sui fatti e riconoscono i più violenti mestatori (i Randazzo, il Lumetta, Andrea Cracchiolo, ecc.).
L’elenco dei testimoni a discarico è ampio, 42 nomi, e probante del tentativo della difesa di allargare il dibattito al grave stato di disagio della popolazione, all’esistenza di favoritismi e al malgoverno dell’amministrazione comunale. Fra i testimoni vi sono il medico dott. Felice Fanciullo, l’Arciprete Don Vito Cataldi ed esponenti del partito d’opposizione. Ma il presidente del Tribunale blocca il tentativo di ampliare il dibattito, rigettando le richieste della difesa di convocare il Principe di Scalea, consigliere provinciale del mandamento di Carini.
Ma seguiamo l’interrogatorio dei testi. Il Cap. Piccoli chiede al sindaco se l’anno precedente, cioè il 1893, vi furono modifiche al dazio delle farine. Risponde il Ruffino: «A luglio si modificò la tariffa, diminuendo il dazio sulla farina fiore di cent. 30 e aumentandolo sulla farina grezza di una lira. A Terrasini consumano tutti farina grezza ed il Comune avrebbe guadagnato in un anno 12 o 13 mila lire».
Domanda il Cap. Piccoli: «Sa dirci qualche cosa se per suo ordine furono attribuiti in Terrasini dei biglietti di favore per esentare dal dazio alcuni suoi parenti e se tali biglietti in numero di 19 furono mandati al R. Commissario Generale Morra?». Risponde il sindaco: «Ciò che è stato riferito a tale riguardo è una maligna insinuazione: se qualche volta furono accordati dei biglietti di favore per l’esenzione dal dazio, ciò fu fatto per agevolare gli indigenti e mai delle persone di famiglia». Ma l’istanza del difensore di chiamare a deporre sulla circostanza il Principe di Scalea viene bocciata dal collegio giudicante e la richiesta di porre precise domande al dott. Fanciullo sulle cause dei tumulti viene respinta dal presidente con una Ordinanza che reca questa motivazione: «…d’altronde il Tribunale, al punto in cui trovasi la discussione, è pienamente edotto delle cause che originarono i tumulti suddetti…». Bisogna precisare che doveva ancora iniziare l’interrogatorio della maggior parte dei testimoni a discarico: i diritti della difesa vengono quindi gravemente minorati.
Il processo deve svilupparsi sul sicuro binario dei fatti accertati dall’autorità e la sentenza, precostituita, deve essere esemplare.
Il processo dura quattro giorni: quattro lunghissimi giorni d’un aprile freddo e nuvoloso. Il terzo giorno la requisitoria del pubblico ministero e la richiesta delle pene: pesantissime per gli organizzatori, 14 anni per i due Randazzo e per il Lumetta, pesanti per gli altri.
Dopo le dichiarazioni della difesa il Tribunale si ritira in Camera di Consiglio, avvertendo che la lettura della sentenza avrà luogo il giorno dopo, 5 aprile, alle ore 12.
LA SENTENZA
Il 5 aprile la sala della Corte d’Assise è stracolma di pubblico e di giornalisti. I familiari degli imputati, numerosi, cercano di scambiare qualche parola con i loro congiunti attraverso le sbarre del gabbione, eludendo la sorveglianza dei carabinieri.
All’ora fissata entra lo corte. La folla vociante ammutolisce. E il presidente comincia a leggere la sentenza.
«In nome di Sua Maestà Umberto I, per grazia di Dio e per volontà della Nazione Re d’Italia, il Tribunale Militare di Guerra in Palermo dichiara i seguenti imputati colpevoli dei reati ascrittigli e li condanna: Randazzo Marco e Lumetta Salvatore a 10 anni di carcere; Randazzo Alfonso ad 8 anni e 4 mesi, Cracchiolo Andrea a 4 anni e mesi 2…».
La voce severa del Presidente Bianchi continua ad elencare le pene inflitte a quei pericolosi sovversivi che spinti dal «malefico soffio della rivolta» s’erano macchiati di «noti e deplorati eccessi vandalici».
Non ci vuol molta fantasia per immaginare le scene strazianti che si verificarono in aula. «Vulemu giustizia» avevano gridato le donne, gli uomini ingabbiati ed i giovani figli.
E ancora una volta la giustizia, quella dei galantuomini, era stata fatta.
(Testo e ricostruzione di Rino Catalfio)
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